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La Galassia Di Andromeda

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stefmix
view post Posted on 14/3/2013, 21:07




Le prime osservazioni della galassia di Andromeda risalgono al X secolo: fu infatti osservata dall’astronomo persiano Umar-al-Sufi Abd-al-Rahman che la descrisse come una «piccola nuvola celeste»; inoltre essa compare su carte olandesi del 1500. Le prime osservazioni telescopiche risalgono al 1612 da parte dell’astronomo tedesco Simon Marius il quale la descrisse come «la luce di una candela osservata attraverso un corno traslucido».

Nel 1781 l’astronomo francese Charles Messier la introdusse nel suo celebre catalogo di oggetti nebulari assegnandole il numero 31; infatti, ancor oggi, la galassia di andromeda è universalmente riconosciuta con la sigla M 31.

La vera natura della galassia di Andromeda fu scoperta solamente in tempi molto recenti quando furono a disposizione telescopi sufficientemente potenti per poterne studiare forma, dimensioni e movimento. Il risultato di questi studi è che quella “nuvoletta celeste” è in realtà uno splendido e maestoso sistema, una specie di gigantesca ruota cosmica in totazione con altrettanto giganteschi bracci a spirale che partono dal centro e si propagano verso la periferia. Il suo diametro è stimato in circa 160.000 anni luce e contiene dai 200 ai 300 miliardi di stelle.

Come accennato nell’introduzione la galassia di Andromeda è molto simile alla nostra Galassia per forma e struttura; la somiglianza è ancora più accentuata se si considera il fatto che anche la galassia di Andromeda possiede due piccole galassie satelliti (M 32 e NGC 204). Unica differenza saliente le dimensioni: la galassia di Andromeda è decisamente più grande della nostra; infatti è la galassia più importante del cosiddetto Gruppo Locale, il piccolo ammasso di galassie (una trentina) che comprende anche la nostra.



LA STORIA

La natura della galassia di Andromeda è rimasta un mistero per tutto il 1700, il 1800 e per i primi decenni del 1900.

Ai tempi di Messier (1700) gli oggetti di tipo nebulare più conosciuti erano la Via Lattea e le due Nubi di Magellano (le due piccole galassie satelliti della nostra, visibili nel cielo australe, così chiamate in onore di Ferdinando Magellano che le osservò per la prima volta durante il suo viaggio di circumnavigazione del globo terrestre). C’era però una grossa differenza: nel caso della Via Lattea e delle Nubi di Magellano i telescopi dell’epoca erano in grado di risolvere la nebulosità in stelle mentre la nebulosa di Andromeda (e altre simili) non poteva essere risolta in stelle da nessun telescopio.

Il primo ad avanzare un’ipotesi concreta sulla natura della nebulosa di Andromeda fu il filosofo tedesco Immanuel Kant. Kant propose che la nebulosa di Andromeda fosse un lontanissimo sistema di stelle, talmente lontano che nemmeno il telescopio più potente era in grado di rilevare le stelle in esso contenute. Per questi sistemi Kant propose il nome di “universi isola” (1755). Indubbiamente Kant aveva pienamente ragione; i tempi però non erano ancora maturi per un’ipotesi cosi avanzata e ardita. Ricordiamo che siamo nel 1700 e le distanze con cui gli astronomi avevano di solito a che fare erano quelle del sistema solare poiché di nessuna stella era ancora stata calcolata la distanza (bisognerà aspettare ancora un centinaio di anni per il calcolo della prima distanza stellare).

Più accettabile risultò, invece, l’ipotesi di Laplace (1798). Laplace era il coautore (assieme a Kant) della teoria che il sistema solare si doveva essere formato a partire dalla condensazione di una nube rotante di polveri e gas; la parte centrale della nube avrebbe formato il Sole mentre le parti periferiche avrebbero contribuito a formare i pianeti. Ora Laplace, da buon scienziato, era alla ricerca di una prova sperimentale che potesse confermare la validità della propria teoria sulla formazione del sistema solare: la nebulosa di Andromeda sebrava messa lì apposta, sembrava fatta su misura. Il nucleo centrale della nebulosa era la stella in formazione mentre le zone più esterne sarebbero diventati i futuri pianeti; ovvio che non si riusciva a risolvere la nebulosità in stelle: NON esistevano stelle.

Durante totto il 1800 gli strumenti si perfezionarono, vennero scoperte molte altre “nuvolette celesti”, alcune di esse mostravano una struttura a spirale ma di stelle nessuna traccia; nessun progresso sulla comprensione della loro natura venne fatto.

Nel 1880 un astronomo gallese, Isaac Roberts, scoprì che anche la nebulosa di Andromeda aveva una forma a spirale (il fatto che la nebulosa appare di taglio ne aveva ostacolato il riconoscimento) e annunciò pubblicamente di averne osservato la rotazione; di conseguenza non doveva trovarsi troppo lontana. Nel 1899 venne, per la prima volta, rilevato lo spettro della nebulosa che mostrò un tipico aspetto stellare. La rotazione (che indicava vicinanza) e lo spettro di tipo stellare sembravano essere le prove mancanti a favore della teoria di Laplace; nel 1909 l’eminente astronomo William Huggins annunciò pubblicamente che la nebulosa di Andromeda era, senza ombra di dubbio, un sistema planetario in avanzato stato di formazione.

I sostenitori della teoria kantiana, però, erano tutt’altro che spariti; infatti, come in ogni giallo che si rispetti, c’era un piccolo particolare che non si riusciva ad inquadrare per il verso giusto. Nel 1885 nella nebulosa di Andromeda era apparsa una nuova stella: molto debole, raggiunse il limite della visibilità ad occhio nudo, mantenne questa luminosità per qualche tempo poi si affievolì e spari senza lasciare traccia. Fenomeni di questo tipo, cioè l’apparizione di nuove stelle e la successiva sparizione, non erano sconosciuti agli astronomi; fin dal I secolo (Ipparco) gli astronomi sia occidentali (romani e medioevali) che orientali (cinesi) avevano registrato l’apparizione di nuove stelle poi sparite. Per questo motivo le avevano chiamate novae (dal latino nuove). A questo punto i problemi erano due:

1) - che cosa ci faceva una nova in un sistema planetario in formazione;

2) - coma mai la nova era così poco luminosa (la nova di Andromeda era la meno luminosa in assoluto).

Notiamo che la teoria kantiana spiega molto bene queste peculiarità; tuttavia queste argomentazioni erano facilmente confutabili. In primo luogo il fatto che la nova fosse poco luminosa non implicava che dovesse essere molto distante (poteva trattarsi del primo caso di nova debolmente luminosa); in secondo luogo il fatto che la nova fosse apparsa nella nebulosa non implicava che essa fosse DENTRO la nebulosa: poteva benissimo essere più vicino e trovarsi nella direzione della nebulosa per puro caso.

Un astronomo americano, Heber Doust Curtis, accanito sostenitore dell’ipotesi kantiana (Andromeda come lontanissimo sistema stellare) non ne voleva sapere di abbandonare le proprie convinzioni. Curtis aveva iniziato la propria carriera accademica laureandosi in lingue classiche ed era diventato professore di greco e latino in un college.
Un giorno ebbe un incontro ravvicinato del terzo tipo con un telescopio (quello del college) e, dopo averci guardato dentro, si innamorò a tal punto dell’astronomia che abbandonò la carriera che aveva intrapreso, ritornò a studiare, si laureò in astronomia e divenne astronomo. A partire dal 1917 Curtis effettuò una serie di osservazioni della nebulosa di Andromeda per individuare altre novae; infatti se, come pensava Curtis, la nebulosa era un sistema di stelle allora doveva essere possibile l’osservazione di altre novae. E Curtis le trovo: debolissime (al limite dell’osservazione telescopica) ma le trovò, a decine; a questo punto era difficile sostenere che si trovassero tutte nella stessa direzione per caso.

Nello stesso periodo in cui Curtis osservava le novae un altro astronomo americano di origine olandese, Adrian Van Maneen, annunciava pubblicamente di avere osservato nuovamente la rotazione della nebulosa di Andromeda e di altre simili. Queste Osservazioni erano in evidente contrasto con quelle di Curtis; però Van Maneen era spalleggiato da Harlow Shapley, uno dei più eminenti astronomi dell’epoca.

In un dibattito pubblico del 1920 Shapley e Curtis si affrontarono; dal momento che Shapley era molto più famoso e autorevole sembrò che dovesse avere la meglio. In realtà le novae scoperte da Curtis fecero molta impressione e si rivelarono una prova molto più forte e convincente del previsto; il dibattito si concluse in un sostanziale pareggio ma in molti videro una vittoria di Curtis. Per risolvere definitivamente il problema della natura della nebulosa di Andromeda occorreva quindi una prova decisiva: per esempio il calcolo della distanza.



LA DISTANZA

Il calcolo della distanza di un oggetto astronomico è uno dei problemi più importanti e allo stesso tempo più difficili dell’astronomia. Per stelle più lontane di 300 anni luce non esiste alcun metodo diretto per il calcolo della distanza. Per stelle vicine esiste un metodo geometrico che consiste nell’osservare la stella in questione in due occasioni a distanza di sei mesi l’una dall’altra (di modo che la terra si trovi in due posizioni opposte rispetto al sole); la stella, rispetto allo sfondo composto di altre stelle più lontane, si troverà in due posizioni diverse e dalla misura dell’angolo sotteso si risale alla distanza. Per distanze superiori ai 300 anni luce l’angolo diventa troppo piccolo e il metodo diventa inutilizzabile. Si utilizzano allora metodi statistici basati sulla luminosità della stella in questione; ma non sulla luminosità che la stella mostra in cielo (luminosità apparente) poiché questa non è indicativa della distanza. Per questo motivo gli astronomi hanno introdotto il concetto di luminosità assoluta definita come la luminosità apparente che una stella avrebbe se fosse posta alla distanza standard di 32.6 anni luce. La difficoltà sta nel fatto che spesso per il calcolo della luminosità assoluta occorre conoscere la distanza che è la grandezza che stiamo appunto cercando; occorre quindi escogitare dei metodi che ci consentano di calcolare la luminosità assoluta in maniera indipendente dalla distanza di modo da poter poi risalire alla distanza stessa.

Nel 1911 un’astronoma americana, Henrietta Leavitt, fece una scoperta che si rivelò poi essere una delle più importanti di tutta la storia dell’astronomia. Per capire il senso di questa scoperta dobbiamo fermarci un attimo e fare la conoscenza di una particolare categoria di stelle: le stelle variabili. Non tutte le stelle hanno una luminosità costante nel tempo: molte di esse mostrano una luminosità variabile (le cause di variabilità sono molteplici). Nel 1784, cioè ai tempi di Messier, un giovanissimo astrofilo inglese, John Goodricke, scoprì che la stella Delta della costellazione di Cefeo era una stella variabile la cui luminosità variava in maniera molto regolare. Essa infatti raggiungeva un massimo di luminosità poi si affievoliva fino ad arrivare ad un minimo; in seguito la luminosità riprendeva a crescere fino a raggiungere di nuovo il massimo e cosi via, regolare come un orologio.

Questo particolare tipo di stelle variabili fu chiamato Cefeidi in onore della costellazione. Le Cefeidi sono molto numerose e soprattutto sono sparse dappertutto (una illustre rappresentante delle Cefeidi è la Stella Polare); i loro periodi di variazione della luminosità variano da qualche ora a qualche giorno.

Mentre studiava le Cefeidi della Piccola Nube di Magellano la Leavitt si accorse che le Cefeidi con il periodo di variazione della luminosità più lungo erano intrinsicamente anche le più luminose: questa scoperta è di una importanza eccezionale poiché lega la luminosità assoluta di una cefeide a una grandezza come il periodo di variazione della luminosità che è facilmente misurabile. Noto quindi il periodo di una cefeide è possibile risalire alla sua luminosità assoluta e quindi alla sua distanza.

Nel 1924 Edwin P.Hubble, con il nuovo telescopio di Mount Wilson da 254 cm di diametro (allora il più grande del mondo) riuscì finalmente a risolvere in stelle le parti esterne della nebulosa di Andromeda; la teoria del sistema planetario in formazione ricevette così un colpo mortale. Ma la vera sorpresa doveva ancora arrivare: Hubble scoprì decine di novae (confermando così indirettamente le osservazioni di Curtis) e, soprattutto, decine di Cefeidi; nell’ipotesi (peraltro molto ragionevole) che le Cefeidi della nebulosa di Andromeda si comportino come quelle di casa nostra si aveva finalmente a disposizione un metodo per il calcolo della distanza. Il risultato fece letteralmente impallidire gli astronomi: la nebulosa risultava distante fra 700.000 e 1.000.000 di anni luce che, per quei tempi, era una distanza immensa. La vittoria della teoria kantiana diventò, a questo punto, totale e la nebulosa di Andromeda divenne la galassia di Andromeda. E la rotazione vista da Roberts prima e da Van maanen poi?

È assolutamente impossibile rilevare visualmente la rotazione della galassia; di conseguenza è probabile che, lavorando ai limiti di capacità dei propri strumenti, questi due scienziati abbiano preso un abbaglio oppure che, in perfetta buona fede, abbiano solamente creduto di osservare ciò che poteva confermare le propria teoria.

Ma le sorprese non erano finite; di lì a qualche anno si scoprì che il metodo di calcolo della distanza con le Cefeidi era sbagliato: dopo le opportune correzioni ci si accorse che tutte le distanze erano state sottostimate. L’universo, come per incanto, si espanse: anche la galassia di Andromeda fu riposizionata e la nuova distanza ottenuta, accettata anche oggi, risultò essere 2.300.000 anni luce. Questo vuol dire che la luce, viaggiando a 299.792,5 km/s, ha impiegato 2.300.000 anni per arrivare fino a noi; questa considerazione ci porta dritto filato a uno degli aspetti più curiosi ed affascinanti dell’astronomia: se la luce ha impiegato 2.300.000 anni per compiere il percorso che ci separa dalla galassia di Andromeda vuol dire che noi vediamo Andromeda non come è adesso ma come era 2.300.000 anni fa. La situazione è ovviamente simmetrica: infatti se oggi nella galassia di Andromeda ci fosse una civiltà molto progredita in grado di osservare la terra nei minimi particolari, gli scienziati di questa civiltà non vedrebbero la terra come è adesso ma come era 2.300.000 anni fa.

Ciò è una conseguenza del fatto che la luce si propaga ad una velocità finita, molto alta ma pur sempre finita.



L’ALBA DELL’UOMO

La luce in arrivo dalla galassia di Andromeda è quindi partita 2.300.000 anni fa, in un periodo in cui la Terra aveva un aspetto molto diverso da quello attuale; non esisteva alcuna traccia della nostra civiltà. Gli unici esseri che, seppur molto lontanamente, assomigliavano all’uomo erano alcune speci di ominidi sparpagliati in una fascia longitudinale dell’Africa Orientale comprendente Etiopia, Tanzania e Repubblica Sudafricana.

Questi ominidi appartenevano alla razza degli Australopitechi (che significa scimmie australi) i quali vissero per un tempo lunghissimo (circa 2.400.000 anni) prima di estinguersi circa 1.300.000 anni fa. Per una curiosa coincidenza poprio 2.200.000 - 2.300.000 anni fa fece la sua apparizione il nostro antenato diretto più antico, il cosidetto Homo Habilis così chiamato poiché è il primo a mostrare la capacità di utilizzare degli strumenti: è l’inizio della Età della Pietra, di quell’epoca che, con una espressione molto suggestiva, possiamo chiamare l’“Alba dell’Uomo”. Questa è l’epoca in cui la luce, in partenza dalla Galassia di Andromeda, iniziò il suo lungo viaggio; quel viaggio che l’avrebbe portata fino a noi. Tutta la storia dell’uomo si è svolta in questo intervallo di tempo.

 
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